Uomo, Accessori, Sposa, Bambino. Chiude tutto.

La posizione di Condé Nast ha dell’epocale se si considera il modo in cui è stata annunciata: non un comunicato stampa ufficiale, niente sulla homepage di Vogue, nemmeno un tweet.
Un link solo in circolazione nelle prime 24 ore, un pezzo di Lettera43 che diventa virale, per quanto virale può essere una notizia data di sabato pomeriggio con 30 gradi e una audience con ricettività da ombrellone.
Il titolo che circola di più? 40 mensilità anticipate per chi sceglie di lasciare l’azienda, l’incentivo più alto nella storia dell’editoria italiana. I lavoratori innanzitutto.
L’indignazione, quindi, e un altro sentimento tutto peninsulare: il cordoglio sciorinato di bacheca in bacheca tra incredulità e R.I.P. che valgono sempre, specie in questo caso dove c’è un nuovo direttore che non ha dedicato un numero speciale né una parola a Franca che di quella rivista era la spina dorsale.

Perché chiude Vogue? Perché il team Farneti-Usai avrebbe deciso di gettarsi alle spalle un prodotto storico prestigioso, identificativo e – soprattutto – in attivo?

Inconcepibile, dicono. Cambiamo prospettiva.

Funziona quel modello di business? Funziona in ogni caso un modello di business da 3 milioni di utili l’anno?

Franca Sozzani è la figura simbolo dell’eterno, eterna classe, eterna capigliatura, eterno garbo che le permetteva di rivolgere un sorriso a chiunque la incontrasse.
Ad oggi non è dato sapere quanto la sua presenza, carne ed ossa, facesse da argine in un contesto destinato a frantumarsi.
Creatrice e protagonista di un immaginario già consegnato ai libri di storia e a pellicole di culto (quel famoso film sul mondo della moda e i suoi direttori è del 2006, quando YouTube aveva 1 anno di vita, tanto tempo fa), la direttrice Sozzani è la leggenda che è per la visione multidirezionale e fantastica che le ha permesso innovare ogni cosa, fino alla nascita di Vogue.it nel 2010, mantenendo sempre degli standard qualitativi elevatissimi.
Ma tutto cambia perché nulla cambi non vale per il sistema moda dove il cambiamento non si traduce in innovazione e velocità è la parola magica.
Pre-collection, Cruise collection sono solo alcune delle specifiche ricorrenti nel vocabolario della moda che gioca d’anticipo sul mercato, sui clienti, sui competitor e sui colossi fast-fashion che hanno scardinato i ritmi dell’impero.
Con Instagram a placare in diretta la sete di immediato, mentre si riscrivono ogni giorno regole diverse per il gioco, l’editor insegue l’influencer in una corsa irrefrenabile: Harder, Better, Faster, Stronger.
In un momento in cui le redazioni online vanno avanti con organici ridottissimi e un blog come The Blonde Salad fattura milioni di euro con una manciata di esperti di marketing digitale, è preistoria pensare a due anni fa quando Condé Nast Italia si vedeva imporre quel diktat di contenimento dei costi dalla casa madre che ha portato alla chiusura di Myself e Wired.

Se pensiamo alle cose come sistema non c’è da mettere insieme solo i numeri in perdita del comparto stampa cartacea con la contrazione del mercato pubblicitario di aziende solide, vedi Dolce & Gabbana, che puntano ogni risorsa sul potenziamento degli account del brand. Il dato più importante è l’orientamento all’immediatezza che non passa più per la mediazione dell’informazione come la conosciamo.
Sicuramente la periodicità va in fuorigioco ma anche il portale è superato se si considera che l’acquisto online passa direttamente per il link in testa al profilo Instagram del brand.
Rappresentativo di quello che stiamo dicendo è la chiusura di Style.com, che già aveva segnato la fusione tra giornalismo e commercio elettronico, e il suo passaggio già in termini di reindirizzamento a Farfetch.com, piattaforma di shopping online in partnership con Condé Nast International.
Il futuro in questo senso è l’e-commerce che non ha bisogno di editor perché ogni azienda punta a costruire da sola la propria immagine senza che una testata ne garantisca l’autorevolezza o il primato. Anche se questa si chiama Vogue.
È la fine del dire a vantaggio del fare. A cambiare sarà la narrazione.
Tutto questo a Vogue l’hanno capito e senza avere la pretesa di anticipare scenari che probabilmente nemmeno gli attori coinvolti vedono, bisogna rilevare quanto fuori dal tempo sia la lamentatio sulla interruzione di quel passato verso il quale Farneti si è mostrato ben poco indulgente.
Giornalista manager, più improntato all’essenza che allo stile – il Nuovo Vogue in edicola a luglio ne è prova – ha chiarito che selezione è uno dei termini da tenere d’occhio per capire in che direzione va il suo operato. Senza perdere di vista la mission di essere il più autorevole player del mercato.
Questo si ribadiva nell’ultimo comunicato stampa di Condé Nast Italia che a giugno annunciava un futuro importante.

In questo senso, se Vogue è il capofila di ogni estensione che abbia riguardato la moda dell’ultimo secolo, non ci resta che assistere a questa rivoluzione che apre una nuova epoca, con trasformazioni che riguarderanno tutta la filiera e le professioni coinvolte.
The Winner Takes It All e a noi tocca restare nella corrente cercando di capire dove soffia il vento e di che tipo è.
L’epoca del Gattopardo sembra definitivamente superata e anche di fronte a bilanci perfetti, quando le leggi di marketing non vedono l’alba del giorno dopo, diventa comprensibile che se c’è una testata che poteva chiudere per prima è proprio Vogue.
Vogue è morto, Style.com pure, e anche io non mi sento molto bene.
Certo, poteva restare tutto come prima. Poteva non doveva.

autore Vittoria Romagnuolo